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LA VIGILIA DI NATALE IN TERRA DI LAVORO

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Dovunque fervevano i preparativi per il cenone. Le pietanze dovevano essere nove: “’i novi cosi”, ossia tante quanti i mesi di gestazione. In alcuni paesi il numero delle portate è tredici: sembra in riferimento ai tredici commensali dell’ultima cena (12 apostoli più Gesù).

Le nove pietanze consistevano in: spaghetti con alici, baccalà fritto e in umido, broccoli, finocchi, sedano, olive, arance, pere.
Il prepararne meno avrebbe portato male e così, anche per questo, scattava la solidarietà: tra vicini avveniva lo scambio di prodotti per raggiungere l’impegnativo numero. Gran da fare in tutte le cucine per un menu a base di baccalà preparato in modi diversi; pesce; anguille e capitoni; spaghetti con pane abbrustolito e conditi col sugo di baccalà o frutti di mare; zucca fritta; sedano fritto; broccoli, ecc., ecc. e poi frutta secca ed i dolci del Natale; Certamente non Panettoni o Pandoro, che sono prodotti industriali del nord, ma “susamegli”, “roccocò”, “pastiere” e “pizze di ricotta” sapientemente preparate in casa dalle massaie.

Ancora oggi il pesce costituisce il piatto principale del cenone della vigilia di Natale e ciò perché, secondo le credenze popolari, non è soggetto ad essere veicolo degli spiriti maligni. Infatti, poiché questa cena si svolge nell’attesa di una nascita divina, solo dopo tale evento sarà consentito il consumo di carne bianca (pollame, tacchino, ecc.) ma non quelle bovine che, essendo ricche di sangue, sono più soggette a trasportare la presenza di entità maligne. Tali carni, comunque, sono consumabili solo se cotte mediante bollitura.

Per molti il cenone della vigilia di Natale era fatto di piccole, povere cose, comunque mancanti alla misera mensa del povero.
Un anonimo che si rammaricava della sua indigenza anche a Natale, così verseggia a proposito:

mo vene Natali,
nun tengu dinari,
mi mettu a fumari
e mi vaju a cuccà.

Sul tardi il cenone era pronto e la tavola imbandita “come quella d’un re”. La mamma chiamava: – E’ pronto! -, ed era un accorrere attorno al desco. Piatti e bicchieri rumoreggiavano e risa e parole correvano di bocca in bocca. Era un attardarsi inusuale davanti alle tante portate, ai dolci, al vino. Che mangiata! Un tempo, che spesso si soffriva la fame, quel giorno rappresentava la possibilità di rimpinzarsi, sicchè valeva il detto:

E’ miegliu ca la trippa si scoppa
e no’ che lu magnari ci resta !

Meglio scoppiare che non consumare tutto quel ben di Dio! Succedeva così che il giorno dopo si stesse male tanto da dover ricorrere alle cure mediche e, per il popolo, ad arricchirsi erano medici e farmacisti.
Si racconta che uno di quest’ultimi, fregandosi le mani, girasse attorno alla tavola imbandita, ripetendo: – “La sera de Natali si fannu ricchi li spezziàli!” (farmacisti)…-.
Negli anni nei quali l’emigrazione colpì particolarmente i nostri paesi e molti capofamiglia erano lontani, era usanza “mettere il posto” a tavola anche per il familiare lontano.
E’ immaginabile quanta malinconia mettesse nella famiglia quel posto vuoto.

… facite comm’ a sera d’ a vigilia
Comm’ se ammiez’ a vuj stess’ pur’ io.
(dalla canzone “lagrime napulitane”)

Ultimata la cena ci si spostava accanto al fuoco, lasciando la tavola imbandita; si sparecchiava al mattino successivo nella credenza che, durante la notte, vi si sarebbero seduti i componenti la Sacra Famiglia. Si iniziava il gioco della tombola, ognuno acquistava la sua cartella e si preparava a segnare i numeri estratti, con legumi o bucce di mandarino.

Ad una certa ora la campana chiamava i fedeli per la messa di mezzanotte. Gli uomini rimasti in casa, al rintocco delle campane annuncianti l’avvenuta nascita, imbracciavano i fucili e sparavano in aria in segno di gioia, proprio come usava per annunciare, fin nei casolari più lontani, l’avvenuta nascita d’un nuovo membro della comunità. C’era chi aveva preparato i mortaretti caricati con polvere nera e frammenti minuti di tegole.
A mezzanotte: fuoco!

Dal testo “Mò vene Natale” di Pierluigi Moschitti, ed. Sistema Bibliotecario “Sud Pontino” 2005, collana “Memorie del territorio”

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