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La missione di Sant’Alfonso Maria de Liguori a Villa degli Schiavi in Terra di Lavoro

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Alfonso de Liguori, vescovo, dottore della Chiesa, patrono del confessori e dei moralisti fondó la Congregazione del SS. Redentore nel 1732 per aiutare le anime più abbandonate, specialmente i poveri, con le missioni popolari e con la predicazione degli esercizi spirituali. Nel 1734 Sant’Alfonso fondó una casa a Villa degli Schiavi, odierna Villa Liberi, in provincia di Caserta, per predicare alla popolazione rurale. Ricostruiamo dalle lettere di Alfonso e dalla narrazione di padre Théodule Rey Mermet la missione a Villa degli Schiavi.

Alfonso Maria De Liguori nasce a Napoli il 27 settembre 1696 da una famiglia della nobiltà cittadina. Studia filosofia e diritto e dopo alcuni anni di avvocatura, decide di dedicarsi interamente alla vita spirituale.

Durante il suo percorso religioso, incontra alcuni pastori, constatando il loro profondo abbandono umano e religioso e cosi’ sente la necessità di rimediare ad una situazione che lo colpí molto nell’animo.

Lascia Napoli e con alcuni compagni, sotto la guida del vescovo di Castellammare di Stabia, fonda la Congregazione del SS. Salvatore.

Nel 1734 costituisce una comunitá di missionari a Villa degli Schiavi, oggi Villa Liberi, dove iniziera un’intensa attivitá spirituale nella chiesa dell’Annunziata e nella casa accanto alla chiesa.

La testimonianza della sua missione è rappresentata da cinque croci di legno che sono oggi ben visibili e simboleggiano i Misteri Dolorosi del Rosario.

Alfonso De Liguori ha scritto molteplici opere di grande importanza che gli hanno riconosciuto il titolo di Dottore della Chiesa, ma anche tante lettere scritte dai luoghi in cui impiantava le missioni in cui descriveva le sue attività, la vita quotidiana, i rapporti con amici e superiori.

L’intera corrispondenza di Sant’ Alfonso è stata pubblicata in Carteggio. Sant’Alfonso Maria de Liguori, a cura di Giuseppe Orlandi, Edizioni Storia e Letteratura, Roma 2004, vol 1-2.

Sono molteplici le lettere scritte e ricevute da Alfonso de Liguori a Villa degli Schiavi, odierna Villa Liberi nel periodo di permanenza della casa dal 1734 al 1737. Ne riproponiamo alcune che descrivono bene la missione tratte dal carteggio

Alfonso de Liguori scrive ad un giovane seminarista Francesco Mezzacapo il 26 novembre 1733, annunciandogli in confidenza l’apertura di una casa a Villa degli Schiavi.

Sappi che qui a Scala si è fondata una Congregazione di Operai sotto la direzione di monsignor Falcoia, vescovo di Castellammare, e già siamo molti compagni. Anzi, ti dò una altra notizia, ma voglio che la vai tenendo secreta alquanto, acciocché il demonio non ci metta impedimento. Io per febbraro verrò in diocesi di Caiazzo a voi vicina, et ivi verremo a fondare un’altra casa, propriamente nella Villa de’ Schiavi, nello Stato di Formicola, e già ivi ci tengono apparecchiata chiesa, casa e rendita, e ci stanno aspettando, per gloria di Dio, come il Messia.

Sant’Alfonso anticipa nella lettera la prossima fondazione che avverrà l’anno successivo, nel 1734, a Villa degli Schiavi, spiegando che la struttura e la Chiesa erano già state preparate. Invita don Francesco Mezzacapo a Villa degli Schiavi e gli prospetta la vita quotidiana.

Ma sappi che la regola è alquanto stretta, perché l’impiego principale che abbiamo è delle missioni; la vita poi in casa è di fatica e solitudine, mentre vi sono molte ore di silenzio, vi sono un’ora e mezza, divisa in tre volte di orazione mentale il giorno, oltre il tempo del ringraziamento alla communione; vi sono 4 discipline la settimana, et altre cose.

Onde difficilmente può resistere fra noi chi non viene per farsi proprio santo, ma per fare una vita commoda.

Il 3 luglio 1734, Alfonso de Liguori scrive a don Francesco Mezzacapo invitandolo a recarsi a Villa degli Schiavi. Una lettera molto interessante che fa comprendere lo svolgimento della vita quotidiana della comunità. Poi, Sant’Alfonso fa un chiaro riferimento alla qualità dell’aria a Villa degli Schiavi che porta benefici alla salute, così come nel 1097 portò benefici a Sant’Anselmo d’Aosta che si rifugiò in questo luogo per curare l’asma terminando anche una delle sue più importanti opere.

Io mi trattengo in questa casa già fondata e stabilita per tutto questo inverno, e difficilmente anderò altrove, se l’obbedienza del nostro comun direttore Mons. Falcoia non mi comanda il contrario; onde per ottobre certamente sto qui, ma io ti aspetto prima, e se stai al Seminario per l’aria, sappi l’aria qui è perfetta e potrebbe giovarti più di quella di Caserta, poiché qui vi è meno romore che nel seminario, dove sempre ci è inquiete e romore; onde se vuoi venire, sarebbe il tempo più proprio verso il 15 di settembre, mentre all’ora qui non fa né caldo né freddo. Ti aspetto dunque e vieni a starti allegramente più di una settimana, perché servirà per meglio stabilirti e a noi non ci porterai incommodo, perché ti contenterai della nostra povertà, anzi ci sarai di consolazione.

Mi dimandi poi quante persone siamo in questa casa; in questa casa per ora siamo solamente quattro co’ l Fratello laico, che ci serve; e specialmente vi è il Sig. D. Saverio Rossi che ti conosce, Sacerdote, e che si porta, come un’Angelo, facendo ogni giorno progressi grandi nella perfezione, come fanno ancora gli altri, che mi confondono, poiché io miserabile mi vergogno di comparire in mezzo di loro.

O’ detto quattro in questa casa, siamo per ora, ma tra poco saremo più, poicché specialmente vi sono due, li quali facilmente tra breve saranno con noi; anzi vi è un buon giovane di Caiazzo, suddiacono, ch’è un’anima tutta di Dio, stimato ivi dal Vescovo e da tutti, e questo è già certamente nostro, poiché già da molto tempo è risoluto di unirsi con noi, già ne à avuta l’obbedienza dal suo Direttore Spirituale, e già da noi e da Monsignor Falcoia si è accettato. L’altro poi è un Sacerdote, che già à detto di voler venire, e già si trattiene con noi a far la regola in nostra casa, ma noi lo stiamo provando bene, se è vera, e ferma la sua vocazione, e perciò ò detto, che non è ancora nostro.

Mi richiedi poi quali siano le nostri pretenzioni in questo luogo; ti rispondo figlio mio, che le pretenzioni non sono grandi, perché pretendiamo qui di farci veramente santi coll’aiuto di Giessù, e di Maria, di cui già coll’esperienza deviamo di godere una loro speciale assistenza.

Qui ce ne stiamo nella nostra divota, e solitaria casetta ritirati in santa solitudine, ogniuno meditando, che più può fare per dare gusto a Giesù Cristo; per lo più, ce ne stiamo ritirati in casa, o facendo orazione, o studiando, o trattenendoci fra di noi con discorsi utili, e divoti, e lontani affatto dal mondo, da parenti, dalle case nostre, e da tutti i romori del mondo procuriamo di trovare la nostra pace solamente in Giesù Cristo, che è la vera pace di tutti.

Appena usciamo dalla nostra casa qualche volta per prenderci qualche breve, ed utile sollievo, o pure per giovare all’anime di questi contorni, che con tanta divozione, e frequenza assistono nella nostra Chiesa, e Giesù Cristo vediamo che benedice a meraviglia le nostre povere fatiche, mentre questi luoghi, si può dire a gloria di Dio, qui facit mirabilia solus, sono diventati un Paradiso, poicché tante anime si son date all’orazione mentale, e fanno prodiggi, e forse quello, che più mi consola, è una Congregazione di uomini che si è stabilita sotto Maria Santissima del Rosario, nella quale come vengono queste povere genti con amore, con che frequenza, e con che profitto è una consolazione grande per noi.

Qui poi ci anno dato la casa, dove già vi sono da undici stanze, seu cellette, colla cappelletta ancora, che abbiamo in casa, dove si dice messa, e si fanno l’altre devozioni della Comunità, ci anno dato ancora la Chiesa, dove vi sono l’utensili necessari, ci anno dato ancora alcune rendite, oltre le molte Messe, che vi sono. Elemosine poi ce ne fanno molte per l’affetto, che ci portano

Le cinque croci di legno testimonianza della missione di Sant’Alfonso Maria de Liguori.

QUESTI LUOGHI SONO DIVENTATI UN PARADISO

La missione di Alfonso De Liguori a Villa degli Schiavi è stata descritta, sulla base delle lettere e delle testimonianze dei padri alfonsiani, dal padre Théodule Rey-Mermet. Redentorista (1910-2002) nacque il 21 maggio 1910 a Val d’Illiez (Valais) in Svizzera, nel 1921 entrò nel seminario mini di Uvrier (Svizzera), dove fece i suoi studi classici.

Ma si fece conoscere soprattutto per la sua biografia Il Santo del secolo dei Lumi: Alfonso de Liguori (1982), scritta su richiesta di Padre Josef Pfab, Superiore Generale dei Redentoristi e in collaborazione con l’Istituto Storico della Congregazione redentorista.

Tradotta in otto lingue, questa biografia è stata incoronata dall’Accademia francese del titolo di Storia. La ricerca su S. Alfonso proseguì in vari libri come Un uomo per i senza-speranza, La morale secondo S. Maria de Liguori, S. Alfonso mistico.

Nella biografia su Sant’Alfonso, padre Theodule Rey-Mermet, dedica un capitolo intero, Questi luoghi diventati un paradiso, alla missione di Sant’Alfonso De Liguori a Villa Liberi, antica Villa degli Schiavi e descrive l’intensa attività spirituale della congregazione.

Di seguito riproponiamo alcuni brani selezionati tratti dal capitolo Questi luoghi sono diventati paradiso dell’opera di Theodule Rey-Mermet, Il Santo e il secolo dei lumi.

L’attuale Villa dei Liberi, allora Villa degli Schiavi, faceva parte della signoria di Formicola, il cui barone era Francesco Carafa, principe di Columbrano, dai seguenti segni distintivi: colonnello bizzarro e poeta di corte, puntiglioso fino alla mania, in cronico conflitto con il suo vescovo e con Roma, divorato dal prurito di regolare ogni cosa nei conventi e nelle chiese. A dire il vero, quest’ultimo tratto non era una caratteristica solo sua, ma comune a baroni e baronesse, come abbiamo già visto nella duchessa di Marigliano e vedremo ancora in altri.

I quasi cinquecento abitanti erano divisi in due agglomerati, distanti circa un chilometro, Villa e Schiavi (oggi Liberi), dei quali il secondo si gloriava della chiesa parrocchiale e il primo, capoluogo civile, del santuario dell’Annunziata, detto anche dell’A.G.P. (Ave Gratia Plena) messo a disposizione dei padri, insieme al piccolo alloggio dei cappellani (tre vani a pianoterra e quattro al primo) addossato al fianco sinistro della chiesa. Falcoia e Rossi avevano negoziato con le autorità municipali e la confraternita del Rosario un contratto comportante pochi redditi e molti impegni, tra i quali quello della scuola; Alfonso invece pensava piuttosto ad un noviziato e a una casa di esercizi spirituali per sacerdoti, ordinandi e laici.

Dal picco roccioso, sormontato dal “castellino”, cento metri dietro la chiesa, tetto dell’intera regione, lo sguardo abbracciava una corona di colline ricoperte di boschi di castagni e di querce, punto di incrocio di quattro diocesi: Capua, Caiazzo, Caserta e Piedimonte. Nella grande ansa del Volturno, che in lontananza gli tracciava intorno un ampio cerchio il cuore di Alfonso esultava cercando di indovinare tra le pieghe delle colline gli innumerevoli piccoli villaggi, ai quali si sentiva mandato: là stentavano la vita, ignoranti del Dio che li amava, boscaioli, carbonai, carrettieri, braccianti, mandriani, casalinghe cariche di bambini. In due anni ne avrebbe conosciuto i nomi e i volti, la miseria e L’umile grandezza: Fondola, Strangolagalli, Treglia, Merangeli, Profeti, Formicola, Sasso, Alvignano, ecc.

Punto focale di questo irradiamento evangelico fu la stessa Villa e i suoi immediati dintorni. Sul muro esterno della chiesa, sotto le arcate che sostengono il piano dei cappellani, il Calvario innalzato da Alfonso nel marzo 1734 testimonia ancora oggi la missione che segnò l’inizio del suo ministero: cinque croci di legno in ricordo dei cinque misteri dolorosi del rosario.

Fu subito, come a Scala, come in tutte le case alfonsiane, missione permanente: ogni giorno, insieme al popolo, meditazione al mattino, visita al Signore sacramentato e alla Madonna a sera; il giovedì, esposizione del SS. Sacramento con predica; il sabato, predica sulle glorie di Maria.

Le Glorie di Maria, prima grande opera spirituale del futuro dottore della Chiesa, verranno pubblicate solo nel 1750, ma il loro primo sgorgare fu a Villa nel 1734. La SS. Annunziata era la prima chiesa della congregazione, Ave Gratia Plena il suo titolo, il suo fascino. il suo mistero: Maria ricca di Grazia in pienezza, traboccante di Grazia da donare… Alfonso se ne esaltava e, frequentandola, celebrandola, predicandola, ne sviscerava gli splendori con amore traboccante. Iniziò un libro per la sua gloria, come nel giugno 1734 scrisse al gesuita Francesco Pepe e a Mons. Falcoia 7 mentre annotava – coincidenza eloquente – a p. 56d del suo diario: “A 29 giugno 1734. Fatto voto di digiunare il Sabato in pane et acqua”.

Ogni sabato quindi, giorno dedicato alla Madonna, Alfonso e Villa si nutrivano incantati delle glorie di Maria. Ogni domenica, al mattino, catechesi agli adulti nelle messe, partendo dal Catechismo del Bellarmino; nel primo pomeriggio, catechismo ai ragazzi, poi riunione con istruzione per gli uomini della confraternita del Rosario; al cader della notte, funzione solenne: predica e benedizione con il Santissimo o Via Crucis predicata.

A queste domeniche dell’Annunziata si accorse ben presto dai luoghi vicini e la chiesetta fu sempre piena di gente. Gli uomini – che non bestemmiavano più, non bevevano più, non giocavano più non andavano più a zonzo – si davano nei villaggi la voce l’un l’altro: “ Andiamoci a fare l’orazione mentale nella Chiesa de Padri! ”. Il testimone che ci ha tramandato queste sorprendenti espressioni, il sacerdote Don Giovanni Izzo, aggiunge: “…e Villa di Schiavi con Paesi adjacenti sembrava un Paradiso Terrestre”8

Ma Alfonso aveva mire più grandi e, avviando la fondazione di Villa all’inizio del marzo 1734 con il solo P. Rossi e un certo fratello Andrea, del quale non sappiamo chi fosse né di dove venisse, si proponeva di crearvi un noviziato e una casa di esercizi spirituali. Per questo aveva messo gli occhi sul “ castellino ”, a cento metri dalL’alloggio dei cappellani, che sarebbe stato sufficiente ingrandire.

Falcoia frenò: “Per la necessità di renderla capace per noi, per Novizi, e per esercizianti molta casa ci vuole, ed in membri divisi; acciò non risulti confusione. Ma caro mio… non tenete luogo, e penuriate dl quattrini” (11 marzo). Un noviziato poi, ma per chi? “ Mi scrivono premurosamente da Napoli D. Filippo Vito, e D. Gennaro Rendina, ch’ardono per venire con noi. Io gli risponderò, che s’abbino pazienza; ed aspettino dal Signore la grazia di potersi ordinare, o a Titolo di Patrimonio o di Beneficio, o di povertà… Gli esercizi agl’Ordinandi, per ora, stimo assai meglio per voi, e per essi, si facciano nella Città (Caiazzo) sotto gl’occhi dello stesso Vescovo che poi, quando sarete più Padri e vi sarà luogo più adatto, potrebbesi altrimenti disponere” […]

In maggio e in giugno la costruzione andò avanti: Alfonso era architetto, Rossi contabile e questuante, entrambi operai; tutto il paese, gentiluomini e belle dame comprese, dava volentieri una mano: “Tutto era , e fervore” dice Tannoia.

[….]Con questo sguardo ammirato sugli uomini, era completo il quadro del progetto che Alfonso viveva e condivideva con altri: in casa, vita silenziosa, contemplativa, laboriosa, di studio, ma accanto a una chiesa in missione permanente; fuori, missioni secondo un metodo nuovo e più efficace (lo analizzeremo); in casa e fuori, preoccupazione prioritaria per la povera gente: per “ lavarla ” in fretta con una confessione generale? molto più, per condurla alla vita di preghiera e di santità.

In questo Alfonso de Liguori andava più lontano del suo modello e patrono Francesco di Sales. Nella prefazione alla Introduzione alla vita devota questi constatava che prima di lui i trattati di vita spirituale “ si sono quasi tutti rivolti a persone molto ritirate dal commercio del mondo ”, mentre sua intenzione era far uscire la santità da “questo completo ritiro” e “ istruire su di essa coloro che vivono in città, in casa, in corte… fuori… sotto la pressione degli affari temporali ”. Il suo appello però, fatto con la penna, si indirizzava a un mondo alfabetizzato, cioè selezionato e ricercato; Alfonso invece aveva di mira e raggiungeva la povera gente analfabeta, non catechizzata, abbandonata, ingiustamente, perché anch’essa di figli di Dio. Come ai lazzaroni delle Cappelle di Napoli, insegnava non solo la conversione, neppure la sola perseveranza, ma la santità di tutta la vita, una santità che “faceva prodigi” (L’espressione è sua), per mezzo della pratica quotidiana dell’orazione mentale non già di qualche devozioncella.

[…]

Sperduta nelle campagne, la povera gente con i suoi missionari non era per nulla abbagliata dalle mode religiose e politiche della metropoli. Alfonso a metà dicembre lasciò Villa nelle mani di Mazzini, di Rossi e degli altri per iniziare la novena di Natale a Castellammare, il cui vescovo non vedeva da un anno, da quando era partito da Scala e dalla sua “grotticella”. Portava con sé, per allontanarlo da Caiazzo e da una madre che non si rassegnava a farlo crescere, il diacono Marocco: il brillante discepolo di Vico a Scala avrebbe potuto prepararsi al sacerdozio e poi, alla fine di marzo, prendere il posto di Sportelli nell’insegnare ai bambini l’abbiccì e il segno della croce.

[…]

Alla fine delle solennità pasquali (17 aprile) raggiunse nuovamente Villa, dove rimase fino all’Avvento 1735, completamente dedito ai circa quindici novizi. I locali erano stati ingranditi, ma si stava tuttora stretti, perché ritiri a ordinandi, a sacerdoti e a laici, rendevano sempre affollati i locali, nell’irradiamento di una vita religiosa intensa: silenzio, orazione, ufficio, conferenze, penitenze e gioia in Dio. Però non era un noviziato sotto campana di vetro: a gruppi di tre, di cui uno sacerdote, si partiva per tre o quattro giorni per evangelizzare i casolari con catechismi, brevi prediche all’aperto, riunioni di preghiera.

Giulio Marocco, ormai sacerdote e più consolidato, aveva reintegrato il gruppo in luglio, ma a fine settembre le quattro giovani reclute della quaresima riguadagnarono la loro dolce costiera, dando ragione alle reticenze di Falcoia, che però non lanciò un grido di trionfo, ma scrisse a Alfonso il 5 ottobre 1735:

“Figlio mio caro, ho più consolazione nella vostra rassegnazione, che non avrei avuta, se fossero venuti dieci buoni soggetti”.

Malgrado questa defezione, Liguori non si rassegnerà mai a perdere la fiducia nei giovani, che dopo la morte di Falcoia, gli daranno ragione.

Intanto, all’arrivo della “rinfresca” (L’autunno), Alfonso, calzate le sue grosse scarpe, riprese, bisaccia sulla spalla e rosario in mano, le marce missionarie attraverso le diocesi di Capua, Caserta, e soprattutto, Caiazzo. I suoi compagni erano tutti padri del SS. Salvatore: Mazzini, Rossi, de Alteriis, Marocco, Camardelli e quel Don Innocenzo, del quale ignoriamo il cognome; con loro in missione c’erano anche i fratelli “coadiutori” (chiamati così proprio per questo).

Però all’inizio del 1736 il giovane albero, sotto la furia del vento, perderà dei rami: Marocco, affaticato, ritornerà alla sua scuola a Scala; de Alteriis, una delle più belle speranze dell’Istituto, verrà prelevato a forza dal padre nel corso di una violenta spedizione armata; altri mostreranno ben presto che le “vocazioni” dei preti non erano più sicure di quelle dei giovani; dei fratelli, resterà solo Gennaro Rendina. V’erano però dei santi – Liguori, Mazzini, Rossi e Rendina – , che per il momento inquadravano e trascinavano gli altri.

Mons. Vigilante invece toccava il cielo con un dito: Villa non restava mai vuota di esercizianti, animati soprattutto da Alfonso; i missionari dissodavano da un capo all’altro la diocesi, della quale aveva scritto precedentemente: “Chiese povere, clero povero, popolazione povera”, facendovi fiorire la vita cristiana incentrata nei sacramenti e nell’orazione; artigiani e braccianti agricoli ( più di duecento nella sola confraternita del Rosario) diventavano a loro volta missionari con l’apertura nei vari villaggi di focolari di evangelizzazione e di preghiera simili alle Cappelle serotine dei quartieri poveri di Napoli.

Il 19 novembre 1735, nella sua relazione quinquennale alla Congregazione del Concilio, il vescovo dichiarava: “Non trovo parole per lodare le opere di questi missionari per la gloria di Dio e per il profitto delle anime, non solamente nei dintorni di Villa, ma anche in tutta la diocesi”.

Si univa alla testimonianza di Don Giovanni Izzo e a quella dello stesso Alfonso: in due anni “questi luoghi sono diventati un Paradiso”.

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