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BRIGANTI E MUSICA POPOLARE

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La tradizione e la fantasia popolare ci tramanda una figura del brigante che spesso si trasforma in mito. Questa immagine, diffusa da quelli definiti la voce del popolo, cioè i cantastorie e i poeti a braccio, fu ripresa in età romantica anche da autori colti come George Byron, Walter Scott, Washington Irving.

Nelle storie popolari hanno sempre appassionato le avventure di uomini temerari ed eroici che rischiavano la propria vita, per fini politici o sociali, per difendere le povera gente. E’ così che si sono tramandate storie e fantasie, mischiandosi a tal punto che nelle avventure di personaggi entrati nella leggenda, come Robin Hood, Frà Diavolo, Gasbarrone, la Primula Rossa, Il Passatore, Zorro e, in tempi più recenti Emiliano Zapata, il “Che” Guevara, il sub comandante Marcos, non è più possibile una distinzione netta tra realtà e mito.

Il racconto diventa leggendario, grazie a una serie di accorgimenti come eventi fantastici ed azioni incredibili e temerarie, proprio come avveniva nei canti cavallereschi medievali e rinascimentali. La storia è oltretutto sottoposta a continue trasformazioni dovute alla personale interpretazione del cantastorie, ai cambiamenti dovuti alla trasmissione orale ed all’influenza delle tradizioni locali.

La struttura narrativa dei canti che parlano di briganti vede, all’inizio, un’ ingiustizia subita e la costruzione di eventi finalizzati alla vendetta. Per realizzare tale vendetta il futuro brigante esce dalle regole del vivere civile e cade in una serie di efferatezze. La violenza esercitata dal protagonista è, al tempo stesso, una sorta di riscatto per il lettore, in quanto più essa è spietata, più viene alleviato il dolore delle prepotenze subite: una forma di rivincita sociale e psicologica dove il lettore si identifica con il protagonista. A chiudere la storia c’è l’uccisione del nemico, che produce un abbassamento della tensione, ed il brigante che fugge oltre i confini della propria terra trovando rifugio in un luogo sicuro, oppure viene catturato ed affidato alle patrie galere o ucciso. Accade talvolta, in molti canti religiosi narrativi, che intervenga un santo o la Madonna a portare l’uomo sulla strada della redenzione. Alla fine della storia, come nelle migliori favole, troveremo sempre una morale o un avvertimento.
Dell’onore tradito di sorelle, madri e compagne di futuri briganti, la letteratura popolare ne è piena, il delitto d’onore, infatti, è un lasciapassare per il riscatto morale dell’assassino al punto che, non solo il popolo, ma la stessa cultura letteraria finisce col guardarli di buon occhio.

Meno indulgente è il cantastorie quando si trova di fronte a uomini spinti a delinquere dalla sola crudeltà, privi di motivazioni sociali. Ecco come si esprimeva un anonimo cantore popolare che, tra la fine del 600 e l’inizio del 700, così descriveva il bandito Carlo Rainone, originario di Carbonara di Nola:

Nel mondo vi sono male genti, ma mai come Carlo Rainone;
vi sono sempre stati insolenti ma mai, come questo, non v’è menzione.

Il cantare procede con una serie di descrizioni di atti criminosi per concludersi con la morte del bandito e con una morale: Nessun si vanti con il brando a lato, né vada scalzo chi semina spine, raccoglierai quel che hai seminato.

Il Cantastorie è una tipica figura di musico del meridione mentre al nord c’erano i Trovatori che, musicalmente, discendevano dalla tradizione popolare provenzale. Erano degli intrattenitori ambulanti che si spostavano di città in città, nelle fiere e nelle feste popolari, raccontando e cantando una storia, spesso aiutandosi con un cartellone in cui erano raffigurate le fasi più caratteristiche del racconto.
A questo tipo di letteratura appartengono anche le ballate dei stornellatori a braccio che, nelle cantine e nelle feste paesane, si sfidavano tra di loro improvvisando delle storie in ottava rima.
L’ ottava rima è una struttura poetica composta di otto endecasillabi (ognuno di essi composto appunto di 11 sillabe), di cui i primi sei a rima alternata e gli ultimi due a rima baciata, secondo lo schema ABABABCC. Detta anche stanza, l’ottava rima è caratteristica della poesia narrativa e dei poemi cavallereschi in particolare, ma viene impiegata anche nelle rappresentazioni sacre e nella lirica. L’invenzione di questo genere poetico è attribuita a Giovanni Boccaccio o ai cantari che la usavano per la ballata attraverso la lauda. Alcuni poeti a braccio, cultori di questa arte, sono ancora presenti in Toscana, Abruzzo e nell’Alto Lazio.
La decadenza della figura del cantastorie, che permane fino all’ultimo trentennio dell’800, andrebbe ricercata non nell’invecchiamento dei contenuti, ma nella mancanza dei mezzi di sopravvivenza. Il cantastorie, infatti, viveva delle offerte degli spettatori e della vendita di fogli recanti la storia raccontata.
Questi fogli a stampa, molto usati fin dal ‘500 e che derivano dai feuilletons francesi, possiamo definirli come gli antenati dei moderni fotoromanzi. Con essi si fondeva la comunicazione scritta del testo, con quella orale della musica che, non esistendo alcuna forma di registrazione e cultura musicale, doveva essere acquisita in forma mnemonica.
È per questo che tanti testi venivano cantati con melodie popolari adattate, per cui ancora oggi, come già avveniva con le ballate del tardo medioevo, è facile trovare storie diverse con la stessa melodia anche perchè, mentre nella storia il testo era di primaria importanza, la musica era di accompagnamento e quindi marginale. Questo tipo di comunicazione, che affonda le proprie radici nella tradizione della letteratura europea, come i poemi cavallereschi e i romances spagnoli, costituì per secoli il maggior veicolo di diffusione delle opere.
Naturalmente i Cantastorie erano sempre alla ricerca di avvenimenti e personaggi che riuscissero a catturare l’interesse degli spettatori. Ben presto storie di Briganti entrarono nel repertorio dei Cantastorie, spesso quando questi erano ancora in vita e servirono al popolo anche per esprimere sentimenti di rabbia e di riscatto sociale contro l’autorità costituita:

Peppe Mastrilli, cu ‘na palla di metallo, accise quattro sbirri e nu cavallo

La figura dei cantastorie, come succede anche con i moderni cantautori, assunse un valore socio-politico, determinando così quella che è la sua funzione di comunicatore sociale: espressione delle condizioni di vita e delle ideologie che si contrappongono, generalmente, al potere dominante.
Pertanto i testi dei cantastorie tendono a vedere il brigante come il difensore degli umili e avversari dichiarati delle classi benestanti.

Così non fu per il brigantaggio post unitario in quanto, cantastorie e poeti, furono bloccati dalla repressione dello Stato e dal timore di essere fucilati per attività eversiva.
Fu così che, a partire dal 1861, l’atmosfera di caccia alle streghe che si era diffusa nelle città e nei borghi meridionali, va ad inquinare tutte le opere e, mentre il popolo racconta storie romantiche e di tesori sepolti dai briganti, intellettuali e narratori prezzolati ne danno un’ immagine truce, descrivendoli come disperati, assassini o sbandati.

La storia che si narra deve costituire un monito per gli ascoltatori e propagandare il nuovo Stato unitario che, intuendo l’importanza dei Cantastorie, mass media dell’epoca, arrivò a commissionare ballate e storie al fine di screditare, agli occhi del popolo, i briganti più carismatici e con loro chi si opponeva al nuovo regime piemontese.
E’ emblematica l’ostilità espressa da un anonimo fiorentino, autore della ballata nella quale si narra in versi la Vera istoria della vita e morte del brigante Chiavone.
In questo caso, l’autore del testo, non adotta più l’ottava epica, ma ricorre all’inno in quartine, per condannare le gesta del brigante Chiavone che fu:

Nemico della patria e della libertà,
per conto d’un Borbone lasciava la città

ei di sue imprese ignobili diede feroce un saggio,
quando diessi a percorrere l’infame brigantaggio.

Insieme ad altri perfidi Compagni di ventura,
qual tigre diessi a scorrere Il bosco e la pianuta…

Nell’ira sua implacabile, contro le persone
La vita a chi pregavalo mai risparmiò Chiavone

L’inno si chiude con l’invito:

quel perdono che meritano solo i Santi, del quale non si curano color che son briganti

Sicchè da ognun detestasi il perfido Chiavone,che fu brigante celebre nei fasti del Borbone.

* articolo tratto da “Briganti e musica popolare dal nord del Sud” di Pierluigi Moschitti, ed. Sistema Bibliotecario Sud Pontino, collana “Memorie del Territorio”.

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