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I SAVOIA E LA SOLUZIONE FINALE

Fernando Riccardi

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Alcuni eventi della nostra storia sono stati artatamente nascosti, sepolti sotto una spessa coltre di oblio, quasi cancellati. Come la triste sorte riservata a migliaia di meridionali rinchiusi nei campi di concentramento del nord Italia all’indomani del 1860. Ho letto con molto interesse l’articolo di Sauro Ripamonti (‘Rinascita’, 4 dicembre 2007, p. 13) che illustra, sia pure per sommi capi, la drammatica vicenda che una storiografia partigiana ha completamente rimosso. A chi volesse saperne di più consiglio l’ottimo libro di Fulvio Izzo dal titolo ‘I lager dei Savoia’ (Edizioni Controcorrente, Napoli 1999). A quella brutta pagina di storia voglio aggiungere alcuni tasselli. Dopo la caduta repentina del regno borbonico, il governo sabaudo si trovò, tra le altre cose, a dover fare i conti con una massa ingente di militari sbandati. L’esercito napoletano, infatti, con un provvedimento inutile e dannoso, era stato sciolto e in tanti si trovarono disperati e senza lavoro. Né le varie campagne di arruolamento varate dai piemontesi si rivelarono fruttuose: alle chiamate alle armi, infatti, si registrò sempre un altissimo numero di renitenti. Il governo sabaudo, trovandosi di fronte ad una vera e propria emergenza che rischiava di esplodere (tutto il meridione era infiammato dalla rivolta brigantesca), in un primo momento, si limitò a rinchiudere tali prigionieri nelle malsane carceri del sud Italia. Subito dopo, però, intuendo la pericolosità della situazione, escogitò un ‘piano di evacuazione’ trasferendo gli ex soldati napoletani al nord, lontano, quindi, dai focolai di rivolta. Il porto di arrivo dei bastimenti era soprattutto Genova. Da qui i prigionieri venivano subito avviati nelle località di destinazione: Fenestrelle, piccola località della valle del Chisone, dove esisteva una imponente fortezza, San Maurizio Canavese, alle porte di Torino e poi Alessandria, Milano, Bergamo. Qualcuno fu rinchiuso a Genova, nel forte di San Benigno. Migliaia di altri meridionali (ex ufficiali e soldati, briganti, renitenti alla leva, oppositori politici o presunti tali, vagabondi, camorristi) vennero confinati in varie isole della Penisola: Gorgona, Elba, Giglio, Capraia, Ponza. Più di 12.000, soprattutto ufficiali e veterani borbonici, che si erano rifiutati di arruolarsi nell’esercito sabaudo, furono trasferiti in Sardegna, sulle isole napoletane o nella Maremma Toscana, sottoposti a domicilio coatto, come prevedeva la famigerata ‘legge Pica’. Nei campi di raccolta e nelle prigioni, costrette ad accogliere molte più persone di quante ne potessero contenere, le condizioni igienico-sanitarie e ambientali erano indecenti. Trattati come animali, ammassati nei bastimenti, senza mangiare e bere per giorni, i poveri meridionali, colpevoli soltanto di essere rimasti fedeli al loro Re, vennero sbattuti in terre che non conoscevano, fredde, in campi di concentramento inospitali, lontano dai loro affetti. Molti non riuscirono a sopportare la disperazione e il disagio e decisero di mettere fine alla loro grama esistenza ricorrendo al suicidio. Ciò malgrado, pur costretti a subire una prigionia atroce, seppero conservare una straordinaria dignità. Allettati da proposte ammalianti, in pochi decisero di entrare nell’esercito piemontese, specie per non venire meno al giuramento di fedeltà prestato al momento dell’arruolamento nelle forze armate borboniche. Con il passare dei mesi la gran parte degli ex soldati napoletani venne trasferita nei lager del nord Italia. In tal modo i governanti piemontesi speravano di aver risolto in maniera definitiva il problema allontanando dai focolai della rivolta tante migliaia di persone. Non avevano, però, considerato un altro problema: i prigionieri napoletani ammassati nelle prigioni del nord, con il trascorrere del tempo, erano diventati in numero così ingente da rendere arduo il mantenimento dell’ordine pubblico. Nelle prigioni scoppiavano di continuo rivolte, sommosse, tentativi di fuga. E allora la fervida fantasia dei governanti sabaudi studiò una astuta ‘soluzione finale’. Nel tentativo di svuotare le prigioni del Regno da quella massa pericolosa di nostalgici borbonici, si pensò bene di ‘sistemarli’ in un posto dove non avrebbero dato più fastidio. Il progetto era quello di ottenere dal governo portoghese la concessione di un’isola disabitata nel bel mezzo dell’Oceano Atlantico dove ‘depositare’ i prigionieri napoletani. I lusitani, però, opposero un netto rifiuto e l’infame disegno non poté andare in porto. Nel novembre del 1862 l’ambasciatore italiano a Lisbona, tale Della Minerva, relazionando al ministro degli esteri Durando, così scriveva: “… la divulgazione di un dispaccio telegrafico… ove si parla… di un negoziato fra l’Italia e il Portogallo per la cessione di un’isola dell’Oceano al fine di deportarvi i galeotti, ha suscitato una tale ripugnanza nell’opinione pubblica e nella stampa che il ministero ha già fatto smentire questa notizia. Penso che per il momento sarà meglio soprassedere a questo progetto per potere avere più appresso una maggiore possibilità di successo” . Ma se per i portoghesi il progetto era ‘ripugnante’, non così stavano le cose per i governanti piemontesi. Nel 1868 le grandi ‘menti’ savoiarde tornarono alla carica. Menabrea, Presidente del Consiglio e ministro degli esteri, affidò ai suoi funzionari il compito di contattare la Repubblica Argentina. Era stata persino individuata la regione nella quale sarebbe dovuto sorgere lo stabilimento penale: la Patagonia, una landa desertica e inospitale che si prestava meravigliosamente alla bisogna. Ma, ancora una volta, il progetto naufragò prima ancora di nascere: il governo argentino, infatti, comunicò ufficialmente di non poter venire incontro alla singolare richiesta italiana. E così i prigionieri napoletani, parecchie decine di migliaia, rimasero stipati nelle luride carceri del nord in condizioni di vivibilità disumane e raccapriccianti. Ecco, dunque, un altro elemento che va a fare luce su una vicenda che in pochi conoscono. L’operazione di ‘damnatio memoriae’ che storici compiacenti e prezzolati hanno messo in atto con ferrea determinazione, non ha tenuto conto, però, della esigenza di verità che accompagna ogni umano anelito. E così ricercatori instancabili, alieni da qualsivoglia logica di schieramento, desiderosi soltanto di far conoscere vicende sepolte sotto la densa polvere del tempo, hanno, pian piano, scalfito quella dura corazza, iniziando ad estrapolare dagli archivi documenti inequivocabili. E’ venuta fuori, in tal modo, un’altra storia, una storia diversa, inedita, sicuramente meno fulgida e patinata. Una storia che non vuole mettere in discussione alcunché né sminuire la statura di personaggi che hanno fatto il nostro paese. Né, tanto meno, inseguire sogni nostalgici o anacronistiche restaurazioni. Si tratta, invece, di raccontare gli accadimenti così come si sono verificati, senza avere più timore di soffermarsi su episodi che possono apparire spiacevoli o discutibili. E’ questa la forza di un paese, di una democrazia che vuole essere compiuta. Ma l’Italia è davvero tale?

“Rinascita”, 8/12/2007

Giornalista e scrittore è stato direttore responsabile de “Il Corriere del Sud Lazio”, il settimanale delle province di Frosinone e Latina. Attualmente dirige “L'Alfiere”, pubblicazione napoletana tradizionalista che nel 2010 ha festeggiato il 50° anno di vita. E' inoltre direttore responsabile della rivista meridionalista “Il Tornese”. Cura, altresì, le pagine culturali de “L'Inchiesta”, quotidiano della Terra di Lavoro e della Ciociaria, di cui è capo redattore. Ha fatto parte del comitato di redazione di “Storia del 900” e collabora con “Storia in Rete”, il mensile di approfondimenti storici edito da Mondadori. E' inoltre vice presidente dell'Istituto di Ricerca Storica delle Due Sicilie. Nel 2003 e nel 2005 è stato insignito del Premio Giornalistico Internazionale “Inars Ciociaria” , nella sezione “giornalisti-scrittori”, e nel 2013 del Premio Nazionale “Arte e Comunicazione”. E' autore di numerose pubblicazioni di carattere storico e, in particolar modo, di studi e saggi sul brigantaggio nell'Italia meridionale. Da ricordare “Il brigante Papone” (1995), “Piccole storie di briganti” (2003), “Costanzo Pompei da Pico, arciprete-brigante e carbonaro” (2013), “Brigantaggio postunitario. Una storia tutta da scrivere” (2011 e 2016) e “Klitsche de la Grange. Un colonnello prussiano contro la rivoluzione italiana” (D'Amico Editore 2017). Su tale fenomeno, e sul periodo risorgimentale in genere, tiene conferenze, convegni e seminari di studi in tutta Italia.

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