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I NOMADI DEI MONTI

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È un torrido pomeriggio di luglio, quando giungo alle Fontitune ed a Valle Porcina, località montane di Picinisco, con agglomerati di case che si stagliano dalle erte stradine. Gli anziani pastori sono qui, circondati da figli, nuore, generi e nipoti ritornati da poco dalla Scozia terra, per loro. Amatuccio, Olindo, Giuseppina, Lucia Crolla ed Antonio Pia mi concedono l’intervista.

Amatuccio – che per anni è stato anche amministratore comunale preposto ai problemi della pastorizia –, spiega come venivano ripartiti, a turno, il latte e il formaggio tra le famiglie dei pastori che da maggio a settembre stazionavano sui pascoli montani di Picinisco. La masseria, l’insieme degli uomini e degli animali, si spostava due volte all’anno, transumava dai monti alla pianura e viceversa, percorrendo itinerari ben precisi: prima tappa era Filignano in Molise, poi, si raggiungeva la Baia Domizia. I più svernavano a San Castrese, a Marzanello, a Pignataro Maggiore, a Sessa Aurunca ed a Mondragone tutti centri del Casertano. «Facevamo una transumanza in economia» – afferma Antonio – «cioè eravamo ospitati da famiglie, presso le quali pernottavamo senza pagare. Le donne, coi figli più piccoli, rimanevano a Picinisco per seminare il grano, raccogliere le olive ed ammazzare il maiale. Verso la fine di novembre e l’inizio di dicembre, con carretti e cavalli raggiungevano la masseria».

Riferisce Lucia che «I figli maschi venivano mandati a scuola serale, per lo più a pagamento: le figlie femmine no perché non avrebbero dovuto fare il soldato e, quindi, per loro la scuola non era necessaria». I pastori «ritornavano alle Fontitune verso la fine di maggio; qui tosavano le pecore e le contrassegnavano con vernice, imprimendo sulla loro pelle le iniziali del proprietario. Dopodiché le donne coi piccoli e con le figlie femmine si fermavano nelle case, gli uomini coi figli maschi più grandi e con le greggi proseguivano per i monti. A capo dell’organizzazione c’era il “massaro” o “vergaro”; in ordine gerarchico seguivano il “casaro” o “caciere”, il “capobuttero”, il “capomandria”, e via via per anzianità, i vari pastori (“pecorali”), “butteri” e “mandriani”. Figure di particolare rilievo erano: il “montonaro”, addetto ai montoni da ingrasso (i castrati); il “ciavarro”, addetto alle “ciavarre” cioè alle pecore giovani, prossime a diventare “matricine”; il “luparo”, incaricato di difendere la masseria dagli assalti notturni dei lupi e degli orsi. Infine c’era il ragazzo destinato ai servizi ed alla manutenzione delle suppellettili detto “pastorello” o “biscino” o “bardascio”, un apprendista pastore».

Giuseppina riferisce che «il lupo era capace di “scioriare” (distaccare dal gregge) fino a cinquanta pecore, poi le scannava tutte saziandosi del loro sangue; l’orso, invece, ne prendeva una mangiandone sùbito le interiora. Al sentore del pericolo, il “luparo” così gettava l’allarme: “Bu – bu – bu, vagliù, vagliù, alla sveglia, sta arrivà gl’urse!”».
«Le pecore munte» – testimonia sempre Giuseppina – «venivano messe in un recinto detto “mandra”; quelle ancora da mungere restavano in un altro. Il latte si versava in “caldare” dalla capienza di 120 litri. Questi recipienti avevano due grosse maniglie ai lati e, due pastori da una parte e due dall’altra, li sollevavano per “impiccarli” su grossi pali conficcati nel terreno (i “forcelloni”) e lasciarli lì tutta la notte per far rinfrescare il latte alla “serena”».
«Il caciere», continua Giuseppina, «veniva da Colle Posta, da La Rocca o da Valle Porcina, prendeva il formaggio da trasportare in paese coi muli e, per non farlo rovinare lungo il tragitto, lo ricopriva con rametti frondosi di faggio. Il mulattiere andava di buon mattino a caricare lo stabbio delle pecore che rivendeva in paese per la concimazione dei campi. Nel pomeriggio ritornava sui pascoli a prendere il ghiaccio che era conservato nelle neviere di Monte Meta e di Passo dei Monaci. Esso era tagliato a blocchi parallelepipedi della stessa lunghezza dei sacchi di iuta destinati a contenerli, ricoperto con la “cama” (pula del grano) e trasportato a Picinisco per farne il gelato. I bambini del paese aspettavano il ritorno del mulattiere per ottenere dallo stesso piccole scaglie di ghiaccio da succhiare. In tempi passati esso veniva portato fino a Napoli per farne gustose grattachecche».
Le mogli dei pastori si recavano sui pascoli per seminare l’orzo, le patate, la segala e per portare da mangiare: la famiglia che, a turno, prendeva il formaggio provvedeva a preparare il pranzo per tutti. I pasti erano molto semplici: pasta fatta in casa, formaggi, frittate, frattaglie e abbondante verdura. Sui pascoli montani le donne conducevano anche le scrofe coi maialini e, quando c’era bisogno di manod’opera femminile, colà si fermavano a pernottare. Il loro ricovero per la notte era costituito dalla “pagliara”, una struttura con i muri perimetrali realizzati con scaglie di calcare locale mentre la copertura era in genere ottenuta con il sapiente utilizzo della stramma (Ampelodesma tenax Link). «Durante le fatiche della giornata» – riferisce ancora Giuseppina – «solevamo cantare stornelli a dispetto rivolti ai nostri uomini come: “Che vai facendo resta ponta ponta / ste figlie de k’ernute e mala razza”». Tutta la comunità aveva uno spiccato senso religioso: prima di cena facevano il segno della croce e prima di addormentarsi recitavano il rosario. «Eravamo tutti romanzieri» – ci informa Antonio – «perché sotto la “pagliara”, la sera, il “vergaro”, si rivolgeva, a turno, ai “pecorali” dicendo: “tu racconta ‘n cunt’” ed allora si snodavano racconti di lupi, orsi, pecore, serpi e pastori».

Questi uomini avevano una particolare devozione per S. Antonio ed, ogni anno, offrivano al parroco di Picinisco i prodotti del loro lavoro per poter portare a spalla, nella processione del 13 giugno, la statua del Santo. Per ottenere ciò, spesso, venivano a diverbio con gli abitanti del capoluogo ma non demordevano dal loro intento. Oggi gli escursionisti, che percorrono a piedi i sentieri della transumanza, incontrano varie nicchie ricavate negli incavi delle rocce con la statuina del Santo. Anche per i pastori, come si è detto nell’articolo apparso nel n. 3-4 del 2005 de Il Cronista dal titolo “Alloro per la polenta antica”, non c’era differenza tra S. Antonio Abate del 17 gennaio e l’omonimo di Padova.

Il 21 agosto, giorno della festa della Madonna di Canneto, i pastori lasciavano le greggi nei ricoveri e, per sentieri scoscesi, raggiungevano il Santuario per ascoltare la Messa e, dopo essersi rifocillati, ritornavano al proprio lavoro. La forte devozione per la Vergine Bruna derivava dall’antica credenza che la Madonna fosse apparsa in quel luogo proprio ad una pastorella. «A Fontitune» – conclude Olindo – «c’erano 32 pastori: una vera ricchezza per l’economia del paese. Purtroppo, col passare degli anni, la pastorizia ha subìto un decremento dovuto a difficoltà varie e sfociato nel triste esodo dei pastori e delle loro famiglie verso terre straniere, prima fra tutte la Scozia».

Pubblicato nell’edizione cartacea, Il Cronista n.8-11/2005

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