Arte e Archeologia
TRA ARCHITETTURA E NATURA: L’INSEGNAMENTO SILENZIOSO DEI SITI RURALI
L’architettura popolare, ed in particolare quella rurale, rivela, in chi si avvicina, un’antica memoria di appartenenza originaria oggi sepolta eppure mai estinta.
Nell’imbatterci in un agglomerato rurale, come tanti presenti nella Valle del Liri, le nostre emozioni restano rapite e, ad un occhio analitico, accade che rapporti proporzionali tra volumi, bucature ed elementi architettonici sono percepiti come integrati nella sensazione di benessere e di agio che si sente in questi luoghi mimetici, dove la forza comunicativa non sta tanto nella cura dei canoni compositivi, quanto nella captazione del sistema armonico a cui gli edifici appartengono e di cui sono tra i principali testimoni.
Il sistema armonico espresso si riflette in vari parametri specifici come il paesaggio, il clima, l’area geografica e la condizione orografica, la scelta del sito su cui edificare i primi nuclei, la presenza di acqua nell’intorno, il rapporto con il terreno e con il suo andamento, l’orientamento dei locali abitati, per lo più esposti a sud, sud-est (e di contro l’interramento delle parti esposte a nord).
Appartengono all’insieme anche i tipi di coltivazioni specifiche e gli aspetti antropici che riguardano gli abitanti, le attività peculiari che essi conducono nell’ambito dell’agricoltura e dell’artigianato, il loro rapporto con la proprietà o con la gestione del terreno loro assegnato (come ad esempio gli accordi produttivi con il signore-proprietario e il rapporto di mezzadrìa riguardante la spartizione del raccolto). Sono coinvolti inoltre il numero delle persone che abitano lo stesso nucleo e il numero dei figli maschi, che portando le loro mogli nella casa paterna ampliano la loro famiglia e quindi la cellula abitativa originaria, nonché il numero di animali da ospitare nella stalla, luogo fondamentale dell’edificio, spesso esteso su oltre il 50% della superficie totale, dove ha cura e protezione per l’unica fonte di sostentamento quotidiano, oltre quella offerta direttamente dalla terra. L’armonia del luogo si evince infine dai materiali presenti sul luogo utilizzabili per la costruzione: il tipo di pietra, il tipo di terra, la possibilità di elaborazione della materia prima.
Ovviamente i contadini non si insediavano in questi luoghi pensando alla compresenza ottimale dei parametri considerati, né avevano architetti e urbanisti che disegnavano il paesaggio, stabilivano destinazioni d’uso, zone edificabili, aree produttive…
Le loro case nascevano e si aggregavano in modo spontaneo, dove il contatto continuo con la natura e l’assenza delle “innovazioni tecnologiche” attuali, portava come riscontro positivo un radicamento innato del senso della misura, del limite della relazione tra consumo e rinnovabilità delle risorse.
I muri delle loro abitazioni nascevano come manufatti realizzati con le pietre raccolte sul posto, spesso accantonate per liberare i campi da coltivare. Dalla cottura delle pietre si ricavava la calce, che si mischiava alla terra locale per preparare le malte. L’argilla cotta forniva i mattoni e i coppi per la copertura, e la costruzione della casa era un’avvenimento a cui partecipava tutta la famiglia, i parenti, i vicini, le donne e i bambini, nella chiara consapevolezza del collegamento che unisce una persona all’altra, per cui il bisogno odierno di uno può essere domani dell’altro, e non ha senso che uno solo o pochi conducano un’esistenza più agevole a stretto contatto con chi ne è privo.
Questi valori di base, insieme ad un sistema di vita in comunione con la natura, determinavano spesso la condivisione “istituzionale” di eventi particolari come la costruzione di una casa e la sua manutenzione ( la settimana di pasqua era spesso dedicata all’imbiancatura con la calce), la raccolta delle olive, la mietitura, la vendemmia, il matrimonio di una figlia, il parto di una mucca…
I canti, le preghiere, le danze, la cucina e i festeggiamenti che accompagnavano questi momenti, oltre che premiare la fatica impiegata, impregnavano l’accaduto di un potere rituale, che esprimeva un forte senso di gratitudine verso la terra e il divino, e rafforzava i legami intimi, affettivi e di cooperazione tra le persone.
E’ da tutto questo che ha origine la bellezza che oggi possiamo ammirare negli agglomerati di Forlieta e Montecoccioli di Arpino, di Fraioli a Roccadarce, di Mezzano a Sora e di altri nella Valle del Liri, luoghi nati, contrariamente a quanto accade oggi con i risultati distruttivi che tutti conosciamo, senza l’intenzione di farsi notare nel paesaggio, ma che tuttavia lo migliorano e lo caratterizzano pittoricamente.
Cosa dovevano essere i nostri paesaggi, quando questi luoghi brulicavano di suoni, di odori, di voci e di versi animali che interagivano tra loro e con il territorio intorno!
Oggi un silenzio paziente e sconfortato regna tra questi piccoli, fieri edifici, ormai allo stremo delle forze. Le intemperie e la vegetazione hanno degradato le loro strutture abbandonate da anni. Di tanto in tanto, lo scricchiolìo di un infisso senza vetro ed i salti di un gatto tra le macerie, sebrano lasciar udire la voce flebile di queste case che pur resistono nella loro lenta agonia.
Paradossalmente, quelle meno raggiungibili e più dimenticate hanno conservato intatta la loro natura, seppur sofferente. Altre, più facili da ristrutturare sono finite inglobate in anonime costruzioni senza anima, non più riconoscibili, con forte danno per la bellezza, per la cultura e, sovente, per la stessa stabilità statica.
Non abbiamo imponenti fori imperiali o archi di trionfo nella nostra Terra di Lavoro, bensì un’identità rurale disseminata nelle nostre valli e sopra le nostre le nostre montagne, nata con noi dalla preistoria, con i Volsci, i Sanniti, i Romani…con Montecassino e i Conti d’Aquino, con la realtà di confine tra il papato e il regno borbonico, i briganti, le guerre mondiali… Non possiamo dimenticarla, e non c’è più molto tempo, se vogliamo salvarla.
In altre regioni d’Italia, l’identità locale viene tutelata e utilizzata per valorizzare e portare benessere. Con le normative attuali e gli interessi sempre maggiori per l’ambiente, questo potrebbe essere possibile anche per noi, magari con qualche attento compromesso tecnologico. I siti rurali sono infatti i luoghi più adatti per la sperimentazione e l’impiego di risorse rinnovabili, per la reintroduzione delle colture biologiche locali e per l’alimentazione autonoma degli impianti (solare, eolica, geotermica ecc.), costituendo così un esempio etico di recupero in piena tematica contemporanea.
Pubblicato nell’edizione cartacea, Il Cronista n.1-2/2008
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