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CASSINO, STRAGE INUTILE

Redazione

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 (La Repubblica – 1/10/2007)

“A CASSINO COME A BAGDAD NE VALEVA DAVVERO LA PENA?”

Libro-choc del Premio Pulitzer sulla liberazione degli alleati Usa nel’44

di Michael Kimmelman

(testo originale The New York Times – A RUINED ABBEY, A PARABLE OF WARE)


Cassino: «Possiamo arrampicarci fino in cima da questo punto» dice Rick Atkinson. La strada davanti a noi, un sentiero di terra battuta, è diventata impercorribile. L’aria puzza di fumo. Tutto tace e fa caldo. Più su, oltre gli alberi di ulivo, saliamo e percorriamo a fatica gli ultimi metri che ci separano dalla sommità e una volta lì ammiriamo il panorama – lo stesso che gli Alleati assediati hanno potuto vedere nel 1944 – dell’abbazia di Montecassino e della valle sottostante. Amante dei libri, figlio di un ufficiale dell’esercito, Rick Atkinson è arrivato qui, nel punto esatto di una delle più letali battaglie sul campo della Seconda Guerra Mondiale.

E lo ha fatto, oltre a qualche altro motivo, perché questa è a suo dire «un’ottima metafora della guerra odierna». Stiamo parlando ovviamente della distruzione dell’abbazia, avvenuta 63 anni fa. Il secondo volume della trilogia di Atkinson sulla liberazione dell’Europa esce nelle librerie domani. Redattore e corrispondente da lungo tempo del Washington Post , Atkinson ha 54 anni e ha vinto il suo secondo Pulitzer per il primo volume della sua trilogia, quello che descrive la campagna in Nord Africa. Il suo secondo volume, “The Day of Battle”, ripercorre l’oscura storia della campagna di Sicilia e d’Italia, sulla quale è in corso ancor oggi un acceso dibattito per determinare se, a differenza di quella di Normandia, sia valsa la pena combatterla. Atkinson contempla il paesag- gio dal Monte Trocchio. Indica Cassino, tre chilometri a nord. Per i tedeschi Cassino divenne l’inespugnabile centro della fortificata Linea Gustav. Per gli Alleati, che si aprivano la strada verso il nord della penisola italiana a suon di battaglie, era un ostacolo lungo la via per Roma. Alla fine degli scontri sarebbe rimasta inabitabile per anni, demolita dalle bombe degli Alleati, assediata dalla malaria. Più su c’è Montecassino, sovrastato dall’abbazia, come una fortezza. Fondata da San Benedetto nel sesto secolo, l’abbazia era un centro di arte e cultura che risaliva quasi all’Impero Romano.

I tedeschi, racconta Atkinson, spararo- no colpi di artiglieria dal lato più lontano di Montecassino, colpi che colpirono Trocchio e le truppe alleate. Per raggiungere Montecassino, gli Alleati dovettero passare a forza attraverso il collo di bottiglia della Valle di Mignano. Lungo la strada una battaglia campale ebbe luogo a San Pietro, un villaggio di montagna risalente all’XI secolo. Questo puntino sulla mappa dimenticato da Dio fu un tempo il luogo più famoso in Europa. Parecchi chilometri più in là la strada si biforca e ci porta a San Pietro, una città fantasma, una specie di Pompei della Seconda guerra mondiale. Finalmente troviamo le grotte, miserabili bu- chi lungo la parete, nei quali gli abitanti di San Pietro furono costretti a vivere dai tedeschi. I cadaveri dei sampietrini morti di stenti o di freddo furono lasciati lì, perché i sopravvissuti non avevano posto per seppellirli. Proprio sulle colline, dice Atkinson, fu ucciso un capitano venticinquenne del Texas di no- me Henry T. Waskow. Da lì all’abbazia aggiriamo Sant’Angelo. Nel gennaio 1944 il generale Mark Clark, comandante operativo degli Alleati in questa zona, diede ordine di attaccare quel paese, occupato dalla quindicesima divisione dei Granatieri panzer tedeschi, con la speranza di aprire un passaggio verso ovest in direzione di Montecassino, attraverso la Valle del Liri. Fu invece una débacle.

Ci troviamo adesso nella piazza di quel paese, a picco sul fiume dal quale i tedeschi avevano una chiara visuale della linea del fuoco sui soldati Alleati, che in 48 ore persero duemila uomini. «Fu una tale calamità…e le perdite furono talmente scioccanti – paragonabili a quelle di Omaha Beach – che alcuni soldati di alto grado del Texas decisero di fare causa a Clark dopo la guerra» racconta Atkinson. «Ma ovviamente Clark avrebbe dovuto rispondere anche di ciò che accadde all’abbazia».

È sempre un azzardo cercare analogie con le guerre del passato, ma talvolta i paragoni si presentano naturalmente. I tedeschi avevano ripetutamente detto agli Alleati di non avere soldati o armi nell’Abbazia di Montecassino. Julius Schlegel, un tenente colonnello nazista, aveva messo al riparo manoscritti e tesori d’arte. Fridolin von Senger und Etterlin, il comandante tedesco della Linea Gustav, innamorato dell’Italia, era solito recarsi a piedi a Montecassino con il suo bastone da passeggio e chiacchierare con i paesani. Aveva seguito scrupolosamente l’ordine di tenere i suoi uomini lontano dall’edificio. Atkinson protende il braccio verso est, per indicare il punto esatto in cui la 34esima divisione di fanteria della Guardia Nazionale dell’Iowa e del Minnesota durante il gennaio 1944 si aprì la strada su questa montagna e sul retro, tutto intorno, arrivando a pochi metri di distanza dall’abbazia prima di rimanere semplicemente senza forze. Ci troviamo adesso nel punto esatto in cui i tedeschi si erano accovacciati sul pendio, sotto l’abbazia. Ci sono innumerevoli nicchie nelle quali scavare tane, bunker, e nascondersi rendendosi invisibili. È chiaro adesso perché il nemico non ha avuto bisogno di occupare l’abbazia in cima alla vetta, dove in effetti avrebbe potuto essere molto più esposto. Un giorno due generali americani la sorvolarono con un Piper Cub e credettero di vedere nel cortile interno alcuni tedeschi. Il generale francese Alphonse Pierre Juin supplicò gli americani di risparmiare l’edificio, dicendo che l’idea di attaccare l’abbazia era una vera follia. Chi era al comando non volle sentire ragioni. «Questo monastero è responsabile della vita di circa duemila ragazzi americani» riferì un tenente colonnello dell’aviazione americana ai suoi superiori il giorno prima dell’attacco. «Deve essere raso al suolo e con esso chiunque vi sia al suo interno, visto che dentro ci sono soltanto tedeschi». Atkinson commenta: «Intelligence scadenti conducono a decisioni tattiche scadenti. Ci furono molte pessime informazioni sull’abbazia e come se non bastasse tra le molte a disposizione si scelsero quelle peggiori».

Fu Clark a impartire l’ordine di attaccare. Avrebbe poi trascorso buona parte del resto della sua vita a difendere la sua decisione, che per altro fu riluttante a prendere. Il 15 febbraio arrivarono gli aerei degli Alleati: erano 250 e sganciarono 1.300 bombe e 1.200 bombe incendiarie. Furono massacrati moltissimi sfollati, donne e bambini, che avevano trovato riparo nell’abbazia. «Quattrocento è un numero molto vicino alla realtà. Ma tra di loro non c’erano tedeschi. Questo è un punto molto chiaro per la Storia». L’abbazia fu polverizzata. I tedeschi, come aveva previsto Clark, rapidamente si intrufolarono tra le rovine fumanti perché gli Alleati non erano intervenuti con un contingente sufficiente ad occupare la zona. Il nemico adesso poteva contare su un avamposto formidabile. Questo permise ai nazisti di guadagnare parecchi mesi di tempo e impantanò a lungo gli Alleati. Nel corso della primavera successiva migliaia di soldati americani, britannici, francesi, polacchi e italiani, oltre a quelli di molti altri Paesi, sarebbero morti combattendo per porre rimedio a questo piano miope e mal concepito.

«Si tratta di qualcosa che ci è fin troppo familiare» spiega Atkinson. «Si prese una decisione in modo azzardato e lacunoso, senza prendere minimamente in considerazione gli effetti secondari». Atkinson cita Machiavelli: “Le guerre iniziano quando vuoi, ma non finiscono quando ti pia- ce”. Ripensandoci, dice Atkinson, Clark non aveva molta scelta. Churchill aveva inviato un cablogramma al superiore britannico di Clark, Harold Alexander, chiedendogli: «Che cosa stai combinando? Te ne stai seduto con le mani in mano?». Eisenhower si unì alle pressioni e a quel punto Alexander diede ordine di attaccare. Clark scrisse un appunto: «È davvero un peccato distruggere senza che ce ne sia necessità uno dei capolavori artistici del mondo». «L’incidente offrì ai tedeschi la chance di rendere noto che erano stati loro ad aver avuto rispetto dei civili» racconta Atkinson. «Al- l’epoca tutti in patria erano logorati dalla guerra e si identificarono nella situazione. Ricordo in Vietnam che alienazione voleva dire combattere una guerra e sperare che fosse il nemico a prevalere. Oggi nel nostro Paese non vi è neppure più la consapevolezza di essere in guerra. Il messaggio che lancia il governo è un altro, è: “Andate a fare acquisti, non preoccupatevi”. In definitiva: chi fu a imbottigliare chi?» continua Atkinson. «La tesi degli alleati alla base della decisione di conquistare l’Italia era che volevano immobilizzare i tedeschi. Ma gli Alleati avevano un milione di soldati in Italia, erano loro stessi immobilizzati, il che significa che non erano in Normandia».

Nel giugno 1944 in Italia c’erano 22 divisioni tedesche. Al tempo stesso a est c’erano 157 divisioni naziste e 60 nel resto dell’Europa occidentale. La campagna italiana durò 608 giorni, costò la vita di 312.000 Alleati e 23.501 americani. A Bagdad, dove è stato reporter, Atkinson dice di aver sentito alcuni ufficiali dell’esercito discutere in privato delle perdite americane subite lì sulla base di numeri relativamente più piccoli. Ma di questo non si parla in pubblico, perché “si deve credere che il sacrificio rientri in una causa che si ritiene valga ogni sacrificio”. Poi aggiunge: «Non molto tempo fa mi è capitato per le mani un articolo del Time Magazine sulla campagna in Italia della primavera del 1944. Il titolo era questo: “Una grande stupi- daggine?”. Io direi che a portare qui gli Alleati dal Nord Africa – dove nel maggio 1943 ci si era chiesti: “Che ne facciamo di un milione di soldati che hanno finito di combattere in Tunisia? – fu una catena di improvvisazioni. Allo sbarco in Normandia mancavano ancora 13 mesi. Roosevelt era contento di combattere una guerra di logoramento. Se non fossero andati in Italia, dove altro sarebbero potuti finire?».

Ernie Pyle, celebre corrispondente di guerra, riassume l’intera campagna alla fine del 1944, non molto tempo prima di essere ucciso lui stesso, mentre faceva il suo lavoro inviando articoli dal Pacifico: «Sono giunto a questa conclusione: se avendo soltanto un piccolo esercito in Italia fossimo riusciti ad ammassare un contingente molto più numeroso in Inghilterra, e se sacrificando poche migliaia di vite fossimo riusciti a salvare mezzo milione di vite in Europa, allora, se tutto ciò fosse vero, fu un bene che le cose siano andate così. Ma non sono sicuro che tutto ciò sia vero, e so che devo per forza pensarla così. Altrimenti non riuscirei nemmeno a reggerne il pensiero».

The New York Times Traduzione di Anna Bissanti)

[articolo di Rick Atkinson, New York Times – La Repubblica]

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